“…allora lavorerai tantissimo, praticamente tutte le aziende hanno problemi organizzativi!”.
È un commento che mi sento dire spesso quando spiego il lavoro che faccio ai “non addetti ai lavori”.
Non parlo di Agile, Scrum o Kanban perché sono comunque approcci difficili da spiegare rapidamente a un pubblico “generalista”, in una conversazione casuale e rapida con chi mi chiede “Che lavoro fai?”.
Ritengo inoltre che il fine — aiutare le organizzazione a migliorare il modo in cui lavorano — sia molto più importante dei mezzi.
“…allora lavorerai tantissimo, praticamente tutte le aziende hanno problemi organizzativi!”
Se la seconda parte di questa affermazione forse (e dico “forse”) è vera, la prima parte, invece, è abbastanza lontana dalla verità.
Il funnel
Per spiegare il contesto in cui opero spesso dico che c’è un funnel, un imbuto che si restringe molto rapidamente.
Se è vero (e, onestamente, non lo so se è vero…) che su 100 azienda il 100% hanno qualche forma di problema organizzativo, dobbiamo anche ammettere che la consapevolezza di questi problemi e la loro severità è percepita in maniera differente da ogni azienda.
Inizierei allora con il dire che se 100 aziende hanno problemi organizzativi, solo 50 hanno questi problemi in cima alla propria agenda come massima priorità. Forse non è 50 ma 70, ma insomma, è fisiologico che ci sia una percentuale considerevole di aziende per cui i temi organizzativi non sono una priorità immediata.
Di queste 50 aziende che riconoscono di avere problemi organizzativi da risolvere, poi, ce ne sono una buona parte, diciamo 40 su 50, che decidono di risolvere i problemi internamente. Che sia attraverso iniziativi top-down, bottom-up, più o meno carbonare, condotte in maniera più o meno competenza, non importa.
I primi tentativi di risoluzione di problemi organizzativi da parte di una azienda saranno quasi sempre iniziative interne: non si tratta infatti di problemi specifici, tecnici, risolvibili chiamando un esperto di dominio per qualche giornata di consulenza. Sono problemi intimi di organizzazione ed normale e giusto che non ci si senta a proprio agio nel condividerli con qualcuno che non fa parte dell’organizzazione.
Restano più o meno 10 aziende su 100 che, una volta messi i loro problemi organizzativi in cima alle loro priorità, e una volta deciso di non risolverli internamente, decidono di affidarsi a qualcuno di esterno.
L’esistenza di questo funnel fisiologico invalida l’affermazione “lavorerai tantissimo perché tutte le aziende hanno problemi organizzativi”: lavoro solo con una piccola percentuale di aziende che hanno maturato abbastanza esperienza circa i propri problemi da portarle a decidere di affidarsi anche ad un consulente esterno.
I consulenti costano

Questo è vero ed oggettivo, se parliamo in termini assoluti. Le tariffe sono alte se comparate a tante altre professionalità consulenziali, e le aziende tendono a naturalmente a prioritizzare gli investimenti su ruoli e competenze che possono influire direttamente e rapidamente sui loro progetti e sul loro business.
Il lavoro sulle organizzazioni è costoso e può non portare risultati immediati o diretti al business. Anche il tema economico, accoppiato al tema del funnel di cui sopra porta a situazioni in cui buona parte delle aziende provano a risolvere i propri problemi organizzativi in autonomia.
Un collega una volta ha detto: “se la mia azienda ha problemi organizzativi, come tutte le aziende, i problemi organizzativi ce li risolviamo da soli, non ti pago 30.000 euro per una consulenza”.
30.000 euro per una consulenza sono una cifra realistica per una azienda molto grande, è ovvio che una piccola azienda con quella cifra ci paga lo stipendio di una persona per un anno, giusto per tornare al tema del funnel e delle priorità di cui sopra.
Brutale, ma è quello che pensano la maggior parte degli imprenditori, anche quelli — tanti — che non hanno pregiudizi particolarmente negativi nei confronti dei consulenti.
P.S.
Non ti servono 30.000 euro per lavorare con me 😅
Il cambiamento organizzativo è elitario?
Per come l’ho descritto, sembra che il cambiamento organizzativo sia qualcosa di elitario, sia per questioni di “pensiero illuminato” (essere in grado di rendersi conto che serve un aiuto esterno), sia per questioni economiche: c’è in apparenza una disparità tra poche aziende che hanno le risorse per affrontare questo cambiamento con un supporto esterno e aziende che invece non possono permetterselo.
Quindi questo significa che solo le aziende che “possono permetterselo” riescono effettivamente a cambiare il modo in cui lavorano. Direi di no.
Prima di tutto, perché i cambiamenti, interni ed esterni all’azienda, avvengono in ogni momento. Il cambiamento è l’unica costante.
Poi, per una questione di quella che chiamo “inerzia organizzativa”, le aziende piccole, pur avendo magari gli stessi problemi delle aziende grandi, hanno spesso maggiore spazio e capacità di manovra: in un certo senso cambiamenti positivi e gestiti internamente posso assolutamente avvenire anche senza aiuto esterno – o con un aiuto molto limitato e mirato.
Sterzare una zattera è molto più facile che sterzare una porta-aerei.
Del resto il consulente organizzativo non è uno stregone con la bacchetta magica: può solo ispirare e accelerare il cambiamento che una azienda è in grado di accettare e sostenere nel tempo.
Più che essere elitario, trovo che il cambiamento organizzativo supportato da un consulente esterno debba arrivare nel momento giusto e con i modi giusti: la realtà è che estremamente difficile intercettare la giusta accoppiata di tempi e modi, sia per l’azienda che per il consulente.
È sempre un trade-off
Al di là del mio tornaconto economico personale, mi dispiace che non ci siano più aziende che almeno provino ad affidarsi a qualcuno di esterno per risolvere i propri problemi.
A volte un paio di occhi e orecchie esterni all’azienda possono davvero aiutare a sbloccare situazioni su cui si tende a girare attorno in maniera poco produttiva per mesi, se non per anni.
Non c’è bisogno di investire cifre assurde, anche perché, come dicevo sopra, se sei una azienda piccola, con una struttura “leggera”, o hai un progetto pilota limitato su cui fare una prova, potresti avere bisogno di un aiuto e un indirizzamento temporaneo.
Le domande da farsi quando si pensa di avere bisogno di aiuto:
- Capire (e magari accettare di farsi aiutare nel capire) quale problema organizzativo vuoi risolvere;
- Capire quali sono i costi economici e umani del continuare a non risolvere certi problemi.
Quando prima ho detto che 10 aziende su 100 riconoscono la necessità di farsi aiutare per il proprio percorso di cambiamento organizzativo, ho omesso alcune informazioni importanti, ovvero che non tutte quelle 10 aziende poi effettivamente avranno esperienze positive.
Quando dico è un trade-off, è un trade-off in tutto e per tutto: sia per il consulente che prova ad aiutare, sia per l’azienda che vorrebbe essere aiutata.
È per quello che il punto 1, capire quale problema organizzativo risolvere, a volte è la parte più difficile della collaborazione tra un consulente e l’azienda cliente. È causa di tanti progetti che non iniziano mai, progetti “start&stop”, di tante aspettative insoddisfatte, di tanti pregiudizi nei confronti dei consulenti.
Anche fra quelle 10 aziende su 100 che vorrebbero farsi aiutare ce ne sono diverse che non sono pronte, o non sono nel momento storico giusto, e il bravo consulente, contrariamente a tutti i pregiudizi al riguardo, sa anche quando non è il caso di insistere.
A volte vengo ricontattato a distanza di anni (non giorni, non mesi, anni) da qualcuno che mi dice che finalmente l’azienda ha perso la strada che speramo prendesse diversi anni prima, magari in occasione di un corso di formazione, un workshop o una breve esperienza di coaching.
Velocità “consigliata” del cambiamento: non la decidi tu!
Ho scritto in precedenza come le aspettative sulla velocità di cambiamento organizzativo siano spesso mal riposte.
Ho un pensiero abbastanza scomodo che mi accompagna dall’inizio della pandemia. Ovvero che la velocità e facilità con cui le persone cambiano lavoro è molto più elevata della velocità di cambiamento organizzativo delle aziende. Lo accettiamo o vogliamo fare qualcosa al riguardo?
Questo si lega direttamente al punto 2 di cui sopra: abbiamo chiari quali sono i costi economici e soprattutto umani del non risolvere certi problemi organizzativi?
Ultimamente sto trovando tante aziende che, pur non avendo molto chiari i confini dei problemi organizzativi, sono invece molto consapevoli delle conseguenze negative che questi problemi generano.
Pungono sul vivo perché si trasformano in burnout, team che “non funzionano” e persone che se ne vanno dall’azienda.
Quindi non è mai, soprattutto ora, questione di “quanto velocemente cambiamo”: probabilmente siete già in ritardo, e l’unica cosa da fare è provare ad iniziare a cambiare qualcosa, partendo dalle conseguenze più evidenti.
Due temi rilevanti
Negli ultimi mi sono occupato di Agile, Scrum, Kanban, trasformazioni organizzative anche in aziende molto grandi. Senza perdere però di vista cosa succede nelle aziende più piccole.
Agile, Scrum e Kanban sono aspetti che possono essere trattati come temi di processo, metodo, struttura, fino a diventare quasi degli “standard” più o meno industrializzati e rigidi, perdendo di vista le necessità delle persone coinvolte: esattamente l’opposto di quello che dovrebbe succedere.
La pandemia mi ha messo di fronte ad alcune problematiche fondamentali che tutte le organizzazioni stanno affrontando:
- Un certo livello di inadeguatezza nell’affrontare la flessibilità richiesta dal lavoro da remoto, ad ampio spettro, dagli strumenti tecnologici alle modalità decisionali;
- Un problema di ritenzione dei talenti, persone, soprattutto tra i più giovani, che abbandonano l’azienda prima del previsto.
Questi due problemi hanno una natura sistemica: si auto-rafforzano tra loro, e sono causati da una catena più o meno articolata di altri problemi, e a loro volta ne generano altri, come un effetto domino.
Sono due problemi preoccupanti, nella stessa giornata mi è capitato di parlare:
- Con manager angosciati dalla quantità di ventenni che abbandonano le aziende dopo solo un anno, creando un gap anagrafico, di competenze e cultura che avrà conseguenze negative per le aziende negli anni a venire;
- Con ventenni che, dopo un anno in azienda, magari il loro primo anno di lavoro, mi raccontano di come facciano fatica a capire il lavoro, a farsi sentire, a far capire che sanno fare qualcosa.
Concludo non con soluzioni consulenziali, ma con un avvertimento: quando pensi che la tua azienda possa risolvere da sola i propri problemi organizzativi (pensiero lecito e sacrosanto), quando pensi che un consulente esterno costi troppo (anche questo pensiero più che legittimo), pensa anche alle conseguenze non solo di breve, ma anche di medio-lungo periodo di non iniziare a risolvere questi problemi in maniera tempestiva ed efficace.
Due chiacchiere? Facciamoci una chiacchierata rapida per capire se e come posso esserti utile.
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