Le aziende infelici si somigliano tutte. Le aziende felici sono felici ognuna a modo suo (e che Tolstoj mi perdoni…). Tutte le aziende pensano di avere problemi unici, che le altre non hanno: la realtà invece è ribaltata, diversa, più complessa.
L’insularità e autoreferenzialità di tante aziende le porta a pensare di avere problemi unici, speciali, irripetibili. E che le altre aziende, magari quelle a cui puntano come riferimento, non abbiano questi problemi.
È un tema di punto di vista di cui solo qualcuno come me può accorgersi, perché ho la fortuna di aver fatto e fare “dentro-e-fuori” da parecchie aziende, per mestiere. Tutti le organizzazioni hanno fondamentalmente i medesimi problemi. Non è una grossolana generalizzazione. Si chiama “essere umani”.
C’è un duplice problema di percezione. Uno è di superficialità: vediamo solo manifestazioni esteriori di tutto quello che, almeno in apparenza, funziona delle altre aziende. La seconda percezione distorta riguarda le soluzioni ai problemi.
Partendo dal presupposto che i problemi sono gli stessi, quello che fa la differenza è il come (e il se) le aziende decidono di risolverli. Non ho mai visto due aziende risolvere lo stesso problema, per quanto banale, nello stesso modo.
E questo rende l’applicazione dogmatica, alla lettera, di modelli, framework, metodi e processi parecchio rischiosa. Se ad un problema generalizzato applichiamo una soluzione generalizzata il massimo che possiamo ottenere è il mantenimento dello stato iniziale.
Occorre essere quindi “duri” con il problema, e “morbidi” con la soluzione. Ripeto: siamo umani. E trovare una soluzione richiede molta più energia di quella che ha creato il problema in principio. Perché per farlo dobbiamo fare una cosa che a nessuno piace fare: essere cambiati (che è diverso dal più generico “cambiare”).
Immagine di testata di Luis Ángel Cardoza Rojas su Unsplash
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