I buchi di sceneggiatura delle metafore sport/lavoro

Ho iniziato a fare sport a 6 anni e ho iniziato a lavorare a 21. Come persona che fa sport da parecchio tempo, più di quanto dedicato al lavoro, ammetto che quasi tutte le volte in cui lo sport viene usato come esempio, come metafora per il lavoro, storco il naso.

È da tantissimo tempo che cerco di capire che cosa “non mi torna” di questo accostamento che in realtà dovrebbe risultarmi perfettamente sensato, avendomi sia lo sport che il lavoro dato molti esempi e paralleli anche evidenti.

Sì, è vero, ci sono diversi punti di contatto tra sport e lavoro, ma forse stiamo un po’ esagerando con tutto questo storytelling.

Tutti lavorano, quasi nessuno fa sport

Essendo un adulto che ha continuato a fare sport a livello agonistico anche dopo le scuole superiori, spesso, sul lavoro, mi sono accorto di quanto la mia esperienza di sportivo non fosse per niente comune tra i miei colleghi o clienti. Non era solo una sensazione.

Sono andato a cercare qualche dato: la maggior parte della popolazione italiana è sedentaria, quasi il 40%.

Un’altra fetta molto grande (26.5%) non pratica uno sport organizzato, ma solo una qualche forma di attività fisica.

C’è solo un 24.4% di persone che fanno sport con continuità, ma questo include tutte le fasce di età — quindi teniamo pure conto anche che la maggior parte delle persone che fanno sport con continuità hanno meno di 14 anni, quindi non sono adulti.

Non ci sono dati al riguardo, ma la percentuale di persone adulte che hanno praticato sport di squadra a livello agonistico, o semi-professionistico, è probabilmente ancora più ridotta.

Il mio punto: molto spesso quando le persone parlano di sport e lavoro, in realtà è che non sanno di cosa stanno parlando — ma una citazione di Velasco non la si nega a nessuno.

Data la quantità di volte che vedo lo sport tirato in ballo come metafora del lavoro, mi viene da osservare che con ogni probabilità questa metafora viene fatta e ascoltata da persone che non hanno mai praticato uno sport di squadra in vita loro.

Magari sono persone appassionate allo sport, e lo conoscono magari molto bene, ma sta di fatto che non sanno cosa significa giocare in una squadra e farlo per anni, anche e soprattutto da adulti.

Questo non può che portare a metafore sport/lavoro imperfette, se non completamente sbagliate.

Il lavoro non è solo performance

Uno dei problemi che che mi fa storcere il naso nelle metafore sport/lavoro è la incessante reductio ad performance individuale: ci piacciano così tanto queste storie di sport che siamo disposti ad accostare al lavoro storie improbabili come scalate di montagne o corse di 100 chilometri nel deserto.

Nel mondo della narrativa si parla di suspension of disbelief quando ci viene raccontata una storia talmente straordinaria che dobbiamo mettere da parte una serie di dubbi oggettivi in modo da poter continuare a goderci la storia, nonostante evidenti buchi di sceneggiatura o leggi della fisica violate.

Questo succede spesso in generi come la fantascienza e il fantasy, ma non solo. Ecco quindi, lo sport usato come estremizzazione e semplificazione di alcuni tra i più importanti e complessi aspetti lavorativi è quello che mi infastidisce.

Ci sono mille motivi per cui queste metafore sportive andrebbero usate con più cura, ne ho selezionata una in particolare, partendo dalla considerazione che, così come lo sport non è solo competizione, il lavoro non è solo lavorare. Il tema non è quanto siamo bravi sul nostro lavoro, come individui o team, ma cosa facciamo per migliorarci.

Imparare, fare, insegnare

Il lavoro non è solo “fare”, così come lo sport non è solo “la partita” o “la gara”. Diventiamo “la versione migliore di noi stessi” applicando quello che io chiamerei il principio dei vasi comunicanti del miglioramento (PVCM?).

Imparare, fare e insegnare sono componenti essenziali del miglioramento, che molto spesso consideriamo in isolamento. D’altra parte diciamo “Chi sa fare fa, chi non sa fare insegna”, giusto? No, non è giusto vederla così. Questa massima andrebbe riscritta in questo modo: “Chi sa fare ha imparato e insegnato, chi non sa fare insegna, magari non bene come chi ha anche imparato e fatto”.

Perché servono tutti e tre questi elementi durante un percorso di miglioramento?

Imparare

lo possiamo fare andando a lezione, facendo formazione, studiando, allenandoci o seguiti da un mentor o un coach.

Un piccolo appunto:così come prima facevo notare che la maggior parte delle persone smettono di fare sport in età adulta, tendenzialmente anche le idee che abbiamo circa l’apprendimento è che una volta finite le scuole, l’apprendimento finisca.

Qui si aprirebbe una enorme parentesi sul concetto di lifelong learning e del perché dobbiamo “imparare ad imparare” nel corso di tutta la nostra vita: per il momento ti invito a notare come spesso ragioniamo in compartimenti stagni riguardo l’apprendimento.

Sembra esserci una età per lo sport, e una età per il lavoro, così come sembra esserci una età per apprendere e una età per lavorare. Così perdiamo di vista un elemento essenziale del miglioramento, ovvero la sua continuità e dinamicità.

Insegnare

È qualcosa che facciamo tutti, in maniera più o meno consapevole. Non c’è bisogno di essere allenatori o esperti professionisti per farlo. Anche un consiglio ad un amico o collega è un momento di insegnamento.

Insegnare in maniera efficace, però, significa ricordarsi esattamente cosa significa non sapere qualcosa. Significa avere presente, ogni giorno, com’era quando non eravamo capaci di fare qualcosa, qualunque cosa.

Questo è un punto cruciale che ho affrontato anche nel mio precedente articolo sulla conoscenza implicita.

Sul lavoro abbiamo costruito un feticcio sull’essere esperti: quando facciamo qualcosa da tanto tempo, e non dedichiamo sufficientemente tempo a imparare cose nuove e insegnare quello che facciamo ad altri, finiremo per dimenticarsi come l’abbiamo appreso.

Ci limiteremo a fare, fare, fare rendendo sempre più implicite le nostre conoscenze.
Chi segue lo sport sa benissimo che un grande campione quasi mai è un bravo allenatore, ad esempio.

Nello sport considereremmo incapace un allenatore che non è in grado di spiegare uno schema di gioco o di costruire un piano di allenamento: sul lavoro questa incapacità di saper insegnare succede ogni giorno, eppure addossiamo la colpa molto spesso a chi “non impara”.

Fare

Quando facciamo qualcosa succede che molto spesso diamo per scontato: troviamo resistenza rispetto a quanto abbiamo imparato o insegnato. Il fare rappresenta il proverbiale passaggio tra la teoria e la pratica, tra l’allenamento e la partita.

La resistenza che troviamo facendo sono i nostri avversari che non vogliono farci vincere la partita, oppure i nostri colleghi che non sono convinti di una nostra idea.

È qui che, secondo la mia modestissima opinione, tutti gli ex-allenatori o atleti di discipline estreme trasformati in sedicenti business coach falliscono miseramente, facendo passare il concetto che il fare sia solamente una questione di performance individuale, e non qualcosa legato anche al contesto in cui ci troviamo e alla performance di gruppo, oltre agli aspetti tutt’altro che accessori di insegnare e imparare.

Qualsiasi persona che voglia migliorarsi in ogni momento della propria vita dovrebbe avere qualcosa che sta imparando, qualcosa che sta insegnando e qualcosa che sta facendo. In continuazione.

Allenamento?

Chiudo con questa scena tratta dalla serie TV “Ted Lasso”, per diversi motivi: è una scena che, presa fuori contesto, può risultare “ispirazionale”, come tanto ci piacciono definirle.

Questa scena però è anche un omaggio ad un fatto realmente accaduto: è una porzione di una conferenza stampa in cui Allen Iverson, uno dei migliori giocatori NBA di ogni epoca, risponde ai giornalisti riguardo a presunti allenamenti saltati.

Questo sfogo è diventato talmente famoso che al “It’s just practice” in “Ted Lasso”, sapevo già cosa stava per arrivare: questo sfogo, isolato dal suo contesto, è stato poi usato per dimostrare quanto Iverson fosse uno scansafatiche, ribelle e pieno di sé — immagine che poi è sempre rimasta associata a Iverson, nonostante il suo status di hall-of-famer, e quindi ufficialmente riconosciuto tra i migliori giocatori della storia del basket.

C’è un terzo livello di lettura però, ovvero che questo famigerato sfogo di qualche minuto è sempre stato condiviso in formato ridotto, isolato dal contesto di una conferenza stampa di 30 minuti, in cui l’immagine dell’Iverson ribelle, scansafatiche e pieno di sé viene ribaltata completamente.

Questo è un ottimo esempio di come dovremmo stare più attenti con le metafore sportive, anche e soprattutto se non sappiamo di quello di cui stiamo parlando.

Due chiacchiere? Facciamoci una chiacchierata rapida per capire se e come posso esserti utile.

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