Si fa presto a dire “burnout”

È una di quelle parole che ha preso piede nel linguaggio comune molto rapidamente durante la pandemia. La utilizziamo per descrivere una ampia serie di sintomi, e non necessariamente una condizione ben definita.

Ci definiamo in burnout quando siamo stanchi, ci definiamo in burnout quando abbiamo poca pazienza con clienti e colleghi, ci definiamo in burnout quando abbiamo troppe cose da fare.

Ma il burnout è una condizione clinicamente diagnosticabile, a tutti gli effetti una sindrome depressiva che si sviluppa unicamente a causa di fattori da stress lavorativo, e, nonostante si tratti di un fenomeno relativamente nuovo nelle professioni legate al lavoro della conoscenza, viene studiato da molto più tempo nell’ambito delle professioni medico-sanitarie.

Riprendendo le parole della dottoressa Christina Maslach, massima esperta mondiale sul tema del burnout, questo fenomeno oggi riguarda non solo medici, infermieri, personale sanitario, operatori e attivisti sociali, ma anche tutti coloro che hanno una passione per il proprio lavoro che li porta a lavorare duramente senza tuttavia avere mai l’impressione di aver fatto abbastanza.

Le idee confuse sul burnout si hanno per due motivi: il primo sono una serie di dinamiche socio-economiche che hanno fatto comparire il problema solo recentemente in situazioni lavorative in cui prima non erano presenti. Il burnout inizialmente, anche come oggetto di studio, riguardava solo alcune categorie professionali specifiche. Oggi riguarda un po’ tutti.

L’altro motivo per cui ci sono idee generiche sul burnout è che è avvenuta una sistematica normalizzazione del lavoro a oltranza e della ultra-competitività tanto che, per molte persone, nascondere e negare il burnout è stato necessario per fare carriera in tantissimi ambiti.

Solo adesso che, collettivamente, grazie alla pandemia, ci siamo resi conto di quanto tossico e poco salutare possa essere sopportare certe condizioni di stress prolungate iniziamo, timidamente, ad accorgersi che il burnout non solo va accettato, ma va anche riconosciuto e contrastato.

Per contrastarlo però occorre capire che cosa è davvero il burnout.

La dottoressa Christina Maslach, che lo studia sistematicamente da diversi decenni, ha formulato un quadro di riferimento per comprendere sistematicamente il burnout.

I suoi studi l’hanno portata a formulare sei aree di congruenza tra lavoro e persone:

  1. Workload
  2. Control
  3. Reward
  4. Community
  5. Fairness
  6. Values

Gravi sbilanciamenti e frequenti incongruenze in ciascuna di queste sei aree possono provocare quello che viene propriamente definito “burnout”.

Troppe richieste a fronte di poche risorse causano uno sbilanciamento del carico di lavoro.

Una mancanza di senso di controllo influisce negativamente sul senso di autonomia.

Mancanza di benefit, premi, riconoscimenti porta ad uno scarso senso di realizzazione.
La mancanza di una senso di comunità ci fa sentire isolati.

La scarsa equità sotto forma di assenza di buone pratiche e accesso ad opportunità porta ad un senso di discriminazione.

Valori aziendali e personali non allineati portano ad una scarsa identificazione.

Maslach ha elaborato un catalogo di domande — ne esistono uno generico, uno per studenti e uno dedicato ad operatori sanitari — che permettono di individuare quanto frequentemente determinati elementi di stress si verificano.

Questi elementi sono raggruppati, oltre che per le sei aree di cui sopra, in tre macro-temi:

  1. Esaurimento psico-fisico
  2. Cinismo
  3. Inefficacia professionale

Solo nel caso in cui le risposte alle domande evidenzino una alta frequenza di tutti elementi aree, si può parlare di effettivo burnout.

Questa è quella situazione definibile come burnout, in ci ci sono risposte di alta frequenza su tutte e sei le aree.
Questa è quella situazione definibile come overextension, caratterizzata da frequenti sbilanciamenti del carico di lavoro, con situazione “sotto controllo” sulle altre cinque aree.

Il fatto che si consideri la frequenza (“quanto spesso ti senti così…?”) e non un punteggio sommabile fa in modo che non esista un indicatore unico di burnout, e la distribuzione delle domande in diverse aree permette la creazione di diversi profili di stress.

Quello che il test di Maslach aiuta ad individuare non è quindi una condizione on/off, burnout sì/burnout/no, ma risponde alla domanda “quali aree del mio lavoro mi stanno creando quale tipo di stress?”.

Questo non significa però che se non siamo in burnout siamo “fuori pericolo”: questo tipo di profilazione sistematica permette infatti di individuare quattro ulteriori profili oltre a quello di burnout propriamente detto, che è quello più estremo. Capire questi cinque diversi profili è fondamentale per capire come aiutare le persone in maniera precisa.

1. Burnout

Caratterizzato da:

  • Frequente esaurimento psico-fisico
  • Frequente cinismo
  • Frequente inefficacia professionale

2. Disengaged

Caratterizzato da:

  • Basso esaurimento psico-fisico
  • Frequente cinismo
  • Bassa inefficacia professionale

3. Overextended

Caratterizzato da:

  • Frequente esaurimento psico-fisico
  • Basso cinismo
  • Bassa inefficacia professionale

4. Ineffective

Caratterizzato da:

  • Basso esaurimento psico-fisico
  • Basso cinismo
  • Frequente inefficacia professionale

5. Engaged

Caratterizzato da:

  • Basso esaurimento psico-fisico
  • Basso cinismo
  • Bassa inefficacia professionale

Uno spunto che ho trovato molto interessante è stato quello sulla necessaria inversione tra quello che cerchiamo di fare di solito, ovvero trovare un “incastro” tra lavoro e persona, mentre dovremmo essere in grado di fare il contrario, ovvero trovare la persona giusta per un determinato lavoro.

Questo incastro ideale tra la persona e il suo lavoro può essere creato facendo leva su una serie di bisogni psicologici come autonomia, competenza, senso di appartenenza e sicurezza psicologica.

Colgo uno spunto della dottoressa Maslach sul tema della resilienza: altra parola a cui dedicherò probabilmente un “si fa presto a dire…”, in quanto il termine resilienza è stato a mio modo abusato fino a favorire situazioni di burnout.

Se i sintomi di burnout sono il canarino nella miniera, il nostro scopo non può essere rendere il canarino più resistente (o resiliente…).

Così come la resilienza è un termine abusato, sono spesso anche abusate tutte quelle misure come la settimana corta, il lavoro ibrido, la palestra in ufficio o altre forme più o meno legate al welfare aziendale che rischiano di essere delle semplici “pezze” se non si ha una visione sistematica del problema: si rischia di continuare a tamponare i sintomi senza mai affrontare i veri problemi.

Il burnout quindi è un fenomeno serio e complesso, con diverse sfaccettature, ma può essere valutato e profilato dalle singole persone, dai team e dalle organizzazioni.

Le direttrici sono quelle suggerite alle sei aree per individuare il giusto “fit” tra persona e lavoro: carichi di lavoro sostenibili, un adeguato livello di scelta e controllo sulle proprie attività, avere modalità di ricompensa e riconoscimento attive e condivise, costruire comunità lavorative sane, rispetto ed equità, valori chiari e lavoro significativo.

I cambiamenti possono e devono essere:

  • Limitati, sperimentali e poco costosi
  • Essere estesi a livello di team e gruppi, non solo a individui

Le ricerche di Maslach inoltre hanno dimostrato come, in molti casi, anche sola una sola, piccola iniziativa su queste sei aree molto spesso porta a effetti a cascata anche sulle altre.

Un invito quindi a considerare, in questa epoca in cui si parla tanto di “smart working” e lavoro orientato agli obiettivi, che non contano solo gli obiettivi, ma anche il come li si raggiungono, con una revisione regolare non solo del raggiungimento degli obiettivi ma anche della modalità e della qualità del lavoro che si sta facendo.


Questo articolo è una rielaborazione dei miei appunti su questo speech “Understanding Job Burnout” della dottoressa Maslach. Qui sotto puoi scaricare i miei appunti originali in lingua inglese.

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