Riapra, lei

Una delle condizioni che considero più fastidiose di queste settimane, non solo come persona ma anche come professionista, è l’incapacità di ragionare per scenari, opzioni, probabilità e compromessi, anziché voler fare piani e proclami, come se si stesse affrontando qualcosa di prevedibile e determinabile.

Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, ma abbiamo la possibilità e la capacità — e, in questa situazione, il dovere — di immaginare uno spettro di conseguenze positive o negative con una certa probabilità a breve termine, su aspetti specifici.

Ragionando per piani ci siamo trovati avvolti dallo retorica del “riaprire”, slogan tipico da campagna elettorale permanente all’italiana.

Qualsiasi cosa vorrà dire riaprire, riapriremo per richiudere a breve, come i bambini a cui dici di non fare qualcosa e lo fanno lo stesso, poi si fanno male, e finalmente capiscono.

Volenti o nolenti Milano e la Lombardia saranno le ultime zone in Italia che torneranno “alla normalità”.

Tornare alla normalità non significa tornare davvero alla normalità: significherà “una condizione diversa da quella attuale”, ma non significherà “come prima”.

Per ipotizzare cosa significa “una condizione diversa da quella attuale, ma non come prima” servono immaginazione e capacità di ragionare per scenari, non slogan.

Quindi faccio uno piccolo scenario su quel micro-mondo che è la città dove vivo, Milano.

Milano è una città in Lombardia, una delle regioni più colpite al mondo dal coronavirus, per densità di popolazione, per stile di vita di questa popolazione, per negligenze politiche varie, per un sacco di motivi che capiremo, forse, tra anni.

Milano è anche la città italiana con la maggiore concentrazione di cosiddetti lavoratori della conoscenza, a cui basta un computer per lavorare, che già lo fanno da tempo o erano lavoratori da remoto latenti fino a poche settimane fa — ovvero, non gli era stato permesso o possibile finora lavorare da casa.

Milano è anche la città italiana con la maggiore concentrazione di persone che si sono trasferite in una città per fare un lavoro che potrebbero fare ovunque, pagando affitti astronomici per stare in questa città.

Molti di noi stanno continuando a lavorare regolarmente, alcuni anche più di prima.

Può essere che tra qualche mese non sarà più così e ci troveremo tutti quanti in ferie forzate, cassa integrazione, disoccupati e con problemi finanziari più o meno seri.

Però c’è una condizione che ci accomuna tutti, ed è quella che ho anticipato poco fa: in tanti ci stiamo accorgendo e ci accorgeremo che, tutto sommato, non abbiamo bisogno di stare a Milano per fare il nostro lavoro.

In tanti ci stiamo accorgendo che una Milano senza cinema, senza bar, senza ristoranti, è un posto come un altro in cui vivere. Ma con affitti altissimi.

Sappiamo, per quella che la nostra conoscenza del mercato immobiliare milanese, che se (se!) gli affitti si abbasseranno lo faranno in maniera molto, molto più lenta rispetto a quanto velocemente le persone dovranno prendere la decisione di dove vogliono, o, meglio, di dove possono permettersi di vivere.

Per quanto possiamo essere affezionati a questa città, pagare più di 1.000 euro al mese di affitto per meno di 50mq per vivere in un posto senza mezzi pubblici, senza cinema, senza bar, senza ristoranti, senza vita sociale, lavorando da casa, non ha molto senso.

Vivere a Milano avrà ancora meno senso nel momento in cui il lavoro inizierà a scarseggiare, o ad essere pagato meno di prima — anche queste conseguenze non sono fantascientifiche, sono invece molto, molto probabili.

C’è anche una questione di ultimi che saranno i primi, anche se non in senso biblico.

Chi di noi, oltre ad essere un lavoratore della conoscenza, non ha figli, non è sposato, è relativamente giovane, è una partita IVA, insomma, rientra in una categoria demografica quasi invisibile dal punto di vista politico e mediatico: saremo gli ultimi a tornare alla normalità, per restrizioni dirette o indirette, per scelta, per opportunità, per senso civico, per buon senso.

Il nostro isolamento — dico “nostro”, perché evidentemente faccio parte di quella categoria — durerà più a lungo.

Se Milano e la Lombardia saranno le ultime zone a tornare ad una cosiddetta normalità, c’è una porzione di popolazione di Milano rappresentata da gli ultimi degli ultimi: noi che possiamo fare un lavoro da casa e ci siamo trasferiti a Milano qualche anno fa per tutta una serie di motivazioni che magari erano deboli già allora, ma in questa condizione iniziano proprio a non stare in piedi — figuriamoci tra qualche mese quando, realisticamente, tutto sarà più difficile.

Saremo gli ultimi a tornare alla normalità e probabilmente saremo i primi a volere o dover lasciare Milano, perché quella sarà la nostra tanto decantata nuova normalità.

Questo è solo uno scenario, uno dei possibili scenari, e nemmeno uno scenario da evitare o particolarmente problematico, non è una emergenza, è solo qualcosa che, succedendo, avrà una serie di conseguenze.

Uno scenario non contiene slogan. Ci sono cose che stanno già succedendo, pensieri che si stanno già formando, conseguenze abbastanza prevedibili.

Con buona pace di chi vuole “riaprire” e pianificare “fasi”.